Gennaio 23, 2019

Dal Globale al Locale, il commercio torna sotto casa

Dagli imponenti shopping mall di imitazione americana ai mercati rionali.

In contrasto con quei pronostici che all’inizio degli anni ’90 davano per finita l’era delle piccole “botteghe sotto casa” e dei prodotti artigianali, il nuovo millennio ha visto il consumatore medio apprezzare il commercio di vicinato e riscoprire le qualità del Chilometro 0, strizzando l’occhio al biologico. Quali sono stati i fattori determinanti questa inversione di tendenza?

Innanzitutto la natura antropologica di “non luogo” dei grandi Centri Commerciali Artificiali – concepiti negli States intorno agli anni ’50 del Novecento con il fine di facilitare l’accesso a una pluralità di negozi diversi – ha privato il cliente di un elemento fondamentale per concludere una soddisfacente compravendita: il senso di fiducia. Si definisce “non-luogo” un ambiente privo di identità, in cui insiemi di persone si incontrano senza però (quasi) mai interagire: è ciò che accade nei grandi punti vendita della distribuzione organizzata, dove si offrono prodotti e servizi standard, non specificatamente adattati secondo le esigenze dell’acquirente o quelle dei suoi cari.

La cura della clientela è dall’inizio dei tempi il cuore pulsante del concetto di “mercato”. I produttori e venditori dei grandi mall invece spesso non conoscono né il compratore né il suo vissuto; fornendo perciò prodotti o servizi spersonalizzati in un’epoca impregnata di Individualismo. La persistente offerta di servizi anonimi e indistintamente uguali per tutti ha generato nelle masse di consumatori il desiderio di andare controcorrente.

Nel ventunesimo secolo il modello d’integrazione della qualità ad personam con il contatto umano è diventato fondamentale per le imprese di successo. Ecco spiegata la necessità di rispondere alle nuove esigenze della clientela creando realtà quali i Presidi della tricolore Slow Food, i prodotti nati e commerciati nello stesso luogo o a “Chilometro utile”, i Centri Commerciali Naturali. La rete di CCN italiani è in continua espansione ed ogni Regione gode di particolari normative per proteggerla: ad esempio, dal 2011 il Friuli Venezia Giulia concede mutui ai Comuni che intendano favorire la gestione coordinata degli esercizi commerciali raggruppati nelle zone centrali cittadine. Ne beneficiano il turismo locale, l’estetica delle piazze principali ed i conseguenti flussi monetari generati. Insomma, a dispetto del nome si cela una strutturata operazione di territorial marketing che di “naturale” e spontaneo pare avere ben poco.

L’economia commerciale del nuovo secolo è sempre meno globale. Diventa autoctona e territoriale.

Un ulteriore fattore ha avvicinato le persone verso un’economia più consapevole, ossia il crescente livello culturale dei paesi industrializzati. A partire dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri il welfare ha plasmato consumatori molto esigenti rispetto alla provenienza dei prodotti presenti nelle loro case e soprattutto maggiormente consapevoli delle dinamiche socio-commerciali globali.

Negli anni ’60 è stata creata in reazione al neo-imperialismo una nuova forma di commercio, quello equo-solidale; che ha trasformato beni esotici come caffè, frutta secca, tè, spezie e zucchero di canna in veri e propri trend. I prodotti fair trade si sono insinuati nelle nostre dispense diventando una piacevole aggiunta alle nostre diete: sono cibi che hanno percorso lunghe distanze, i cui prezzi significativi li rendono spesso non abbordabili da tutti i portafogli.

La crisi finanziaria che durante i primi anni del Duemila ha colpito i mercati di tutto il mondo ha costretto il consumatore medio, meno abbiante, a contenere o eliminare ogni plus dalla propria routine. La tavola si è fatta meno internazionale, la quotidianità più frugale, piccole e medie imprese hanno abbassato le saracinesche e pertanto la necessità di valorizzare le produzioni locali e diventata più impellente. I mercati rionali una volta considerati antiquati, di retaggio medievale, sono tornati in voga come sinonimo di autenticità e ottimo rapporto qualità-prezzo.

Particolarmente in Italia questi elementi, misti al crescente apprezzamento del marchio “Made in Italy”, hanno comportato un riavvicinamento ai prodotti a Chilometro 0: a differenza dei cibi la cui origine non è adeguatamente certificata, sono genuini e l’assenza del processo di trasporto li rende economicamente abbordabili – inoltre sono spesso senza OGM e questa caratteristica soddisfa gli individui più salutisti. Emblematico è il caso “Eataly”, catena di punti vendita presenti in tutto il mondo che per ha prima coniugato il “Made in Italy” con le diverse eccellenze gastronomiche regionali: il suo fatturato annuo sfiora i 330 milioni di euro annui con margini in crescita.

Riscoperta della propria identità nazionale, crescente attenzione ai processi di produzione dei beni, compratori sempre più competenti e pertanto esigenti, necessità di contatto umano in un secolo dove persino la cura della clientela è 2.0: la ricetta dell’impresa di successo del nuovo millennio è quella della nonna.

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